Tra mistico e profano, il Natale è anche a tavola.
Il Natale di ogni contrada, che riappare nonostante la quarta probabile ondata pandemica, non contagerà di certo agnolotti, tortellini,lasagne, maccheroni, spaghetti, vermicelli, fettuccine, rigatoni, risotti, ravioli, osso-buco, pesci lessati, aragoste, gamberi, acciughe, uova sode, tacchini, capponi, zampone, cotechino, carciofi, panforte, cassata, cannolicchi, torrone e…panettone
Nell’identità culturale di ogni siciliano, si avverte che la manifestazione dell’appartenenza, o meglio dell’idem sentire, è anche mutuata attraverso la riscoperta della tradizione gastronomica ricca di sapori, colori e profumi. Non sfugge l’interrelazione ovviamente con la storia dell’Isola e le influenze delle dominazioni che nel tempo sono state filtrate, decantate, migliorate, affinate econformate agli usi locali, confermando così nei fatti quel ruolo che la Sicilia, ha assunto nei secoli, di ponte fra oriente e occidente anche nella cucina.
Riflessi culturali che suggestionano sia la cosiddetta cucina povera, tipica di una popolazione sempre afflitta da una miseria profonda ed ostinata, oggi così rivalutata per la semplicità genuinadegli ingredienti, che quella ricca, espressione delle mense baronali, e della raffinata opulenza delle tavole Gattopardiane.
Allora come oggi, il giorno della Vigilia di Natale è quello più atteso quello che dà l’avvio ufficiale alle festività natalizie, che riuniscono anche in periodo di Covid le famiglie pronte a seguire le tradizioni e le abitudini gastronomiche.
Un tempo, momento di veglia in attesa della nascita del Redentore, vigeva il divieto di mangiare carne, cibo di lusso, vietato in segno di rispetto per il Salvatore che stava per nascere. Quindi spazio a pietanze a base di pesce ed al baccalà cucinato secondo le proprie radici, inoltre anguilla o capitone, a tavola anche per il suo valore simbolico somigliando al serpente metafora del demonio da esorcizzare mangiandolo. Molte altre pietanze nel periodo natalizio avevano un valore paradigmatico , come nella tradizione contadina i dolci preparati con frutta secca come noci e mandorle, per simboleggiare la fertilità della terra e auspicare quindi la prosperità della famiglia.
Col tempo la Vigilia di Natale è divenuta ricco momento di convivialità a tavola, con le specialità della tradizione regionale, e a partire dal dopoguerra, negli anni del boom economico, le portate si ampliarono e poi dagli anni settanta comparve anche l’antipasto con vol au vent alla spuma di tonno o la rosea maionese che “sommergeva” il cocktail di gamberi, preludio dei piatti di lasagne o di agnolotti in brodo.
Oggi tra restrizioni pandemiche e modificazioni nelle diete i menù si adeguano anche con prodotti da asporto e con la diffusa presenza di salmone, crostacei, gamberi e gamberoni, paste o risotti, gratin, pesci al forno e cominciano ad apparire i piatti vegetariani o vegani.
Ciò che non manca è il panettone un tempo solo pagnottone di farina bianca, lusso per una popolazione che sulla tavola non aveva che pane di mistura di granaglie, oggi dolce con frutta candida, o con cioccolato, con le castagne candite, con creme varie, ma sempre con uva sultanina, vaniglia, miele italiano e uova fresche. Un dolce che continua a riunire l’Italia e che esercita – come disse Giuseppe Ciocca, il più rinomato pasticcere tra ‘800 e ‘900 “un fascino portentoso di golosità, non solo sui bambini, ma sulla fanciulla vezzosa, sulla donna galante e capricciosa, sulla signora matura e grave, sull’uomo rude, insomma su tutti.”
Il dolce, quindi espressione nelle solennità del calendario da santificare come letizia di mensa,opera di ingegno dei deschi poveri, per i quali indigenti e contadini che vivevano dei “frutti della terra”, erano provetti a rendere bella e gustosa la scarsa materia prima disponibile.
La festa rimane innanzitutto, un vissuto collettivo; se il rito è qualcosa che si fa, la festa è qualcosa che soprattutto si sente e non esiste festa o ricorrenza, sia laica che religiosa, che non sia legata al cibo con festeggiamenti elaborati sempre dalla tavola, modulati a seconda delle varie tradizioni, sempre policrome anche all’interno di uno stesso territorio.
Dodici giorni allora, da Natale all’Epifania, di un’unica festività che conclude l’anno vecchio e apre il nuovo ciclo generativo con i doni natalizi che all’origine, a differenza dall’attuale aspetto consumistico, erano una ridistribuzione dell’eccedenza alimentare fatta di noci, mandorle, castagne, dolci e frutta secca.
Era costume un tempo che, il giorno della vigilia, si mangiassero tredici pietanze, compresa la frutta, i dolci ed i torroni bianchi e neri; una visione della festa che proietta sempre le sue caratteristiche nel passato e le dà per esaurite nel presente: concezione olistica della festa che ha dominato negli ultimi due secoli, e che ha reso la festa, specie quelle civili, tema politico-ideologico, e ha spesso reso difficile la conoscenza degli eventi festivi religiosi.
Ed allora mistico e profano, ma anche gastronomico, nel Natale di ogni contrada, paese, o regione, che riappare nonostante la quarta probabile ondata pandemica che non contagerà di certo agnolotti, tortellini,lasagne, maccheroni, spaghetti, vermicelli, fettuccine, rigatoni, risotti, ravioli, osso-buco, pesci lessati, aragoste, gamberi, acciughe, uova sode, tacchini, capponi, zampone, cotechino, carciofi, panforte, cassata, cannolicchi, torrone e…panettone o la novità 2021 del “PA’ncucciato” che mette insieme tradizione di preparazione del panettone con quelle antiche di incocciatura del cous cous, che diventa dolce grazie ad un procedimento ideato dal cuoco Filippo La Mantia.
qOvviamente ci sarà Babbo Natale, immune al Covid-19, che non avrà alcun problema a distribuire i doni la notte della Natività e potrà regalarci un motivo in più per sorridere anche con le incursioni d’arte del creativo fotografo americano Ed Wheeler, nella Cena in Emmaus di Caravaggio, ritrovandosi a tavola nel dipinto del 1601 o al Bar alle Folies Bergère, nel dipinto di Édouard Manet del 1882.