Pane bianco, minestra e scioperi nella Messina ai tempi del Colera
Durante l’estate del 1885 ed i primi del 1886 anche la città e la provincia peloritana furono sconvolte dal vaiolo, la quale sommandosi al mai sopito colera, colpì centinaia e centinaia di persone.
Con le misure per il contrasto ed il contenimento sull’intero territorio nazionale del diffondersi del virus Covid -19 e per i limiti previsti dai decreti del Governo nazionale, ristoranti e pubblici esercizi in genere, stanno registrando situazioni di crisi che non si supereranno nel breve periodo. Per manifestare contro le chiusure ed a sostegno del settore della ristorazione si sono avute in tutto il Paese iniziative di piazza che hanno posto all’attenzione dei media, il disagio generale del comparto ed il malessere di un settore dell’economia che in epoca no-covid, è stato da sempre, trainante sul PIL nazionale.
Proteste non mancarono a Messina anche per l’epidemia di colera del 1885 che investì tutti i paesi del Mediterraneo, costretti ad applicare quarantene e cordoni sanitari per proteggersene. Durante l’estate del 1885 ed i primi del 1886 anche la città e la provincia peloritana furono sconvolte da una nuova epidemia, quella del vaiolo, la quale sommandosi al mai sopito colera, colpì centinaia e centinaia di persone, soprattutto nei quartieri più poveri. Nel marzo 1888 la causa principale dell’infezione a Messina si ritenne di individuarla nell’inquinamento delle acque comunali e, quindi, si dispose la totale chiusura sia delle condotte che dei pozzi.
L’approvvigionamento idrico, in quantità estremamente limitata, fu assicurato mediante due navi-cisterna e l’acqua stessa veniva distribuita solo dopo la sterilizzazione eseguita in tre grandi ebollitori approntati dal Comune. Gli interventi così condotti assorbirono non soltanto tutte le disponibilità del bilancio e gliaiuti finanziari del Governo, di molti Comuni e di un numero piuttosto elevato di privati benefattori, ma generarono ugualmente rilevanti debiti a carico delle finanze comunali.
Al momento del trasferimento dei poteri dall’uscente Commissario Straordinario Tito Sermanni al Prosindaco Ernesto Cianciolo, ad ottobre 1887,la cassa comunale disponeva soltanto di duemila lire e per potere fronteggiare le spese indispensabili della stessa giornata dell’insediamento, fu necessario ricorrere a un prestito da parte di un componente della stessa Giunta. Tutte le attività della Città erano paralizzate e molta gente, per sfuggire al contagio, si era trasferita nelle campagne e la quasi totalità degli esercizi di generi alimentari era chiusa.
Per sfamare la popolazione si provvedeva con le cosiddette “cucine economiche”, sorte per iniziativa dibenefattori e fatte funzionare da volontari che prestavano la loro opera a scopo umanitario. Le Cucine Economiche Popolari erano nate nel 1882, nel padovano, con lo scopo di confezionare il cibo con grande economia, destinandolo alla classe sociale povera anzi, misera di allora. L’8 ottobre 1887, il Prosindaco Cianciolo indirizzò al Presidente della Commissione per le cucine economiche una lettera evidenziando che: “la Giunta saputo l’intendimento di cotesta egregia Commissione che sian chiuse quest’oggi due delle quattro cucine economiche, e che le altre due si chiudano verso i primi giorni della vegnente settimana, mi ha dato l’incarico di pregare la Commissione che piacciasi soprassedere per parecchio altro tempo della chiusura delle ultime due cucine. E per vero si è ancora lontani da quella riattivazione dilavori, di traffici, di industrie che può fare assolutamente cessare la necessità di sì benefico soccorso, e gli egregi cittadini che contanta longanimità ed abnegazione l’hanno impiantato e mantenuto,vorranno certo porre il colmo alla lor virtù accogliendo la preghiera della Giunta”.
La Commissione però dispose ugualmentela chiusura delle cucine, facendo rilevare che, col miglioramento avendo l’Associazione della Croce d’Oro cessato la distribuzione dei buoni-viveri, era iniziato il commercio clandestino degli stessi buoni, senza contare poi la necessità di stroncare l’incipienteaccattonaggio.
In un quadro di crisi economica che, nel 1898, attanagliò Messina per la sopravvenuta inattività del porto, consapevole dello stato di bisogno della popolazione, l’Amministrazione peloritana del Prosindaco Giuseppe Arigò, apportò diverse variazioni al bilancio preventivo, con un adeguato stanziamento per la gestione delle cucine economiche. All’inizio del 1901 l’allora sindaco Antonio Martino diede poi avvio a Messina a una nuova forma di assistenza, cui fu dato il nome di “Il pane quotidiano”, commentata dalla “Gazzetta di Messina” dell’11 Gennaio 1901: “Il principio si è che il povero il quale si presenta senza boni, né nulla, può avere la sua razione di pane, purché se la mangi entro la sala apposita, senza poterne portare fuori una briciola, e senza poter portare lì dentro del companatico. Chi con una sola razione non si sfama può, una volta uscito, ripresentarsi per averne una seconda perché nessuno che si presenta può essere respinto, purché, s’intende, mangi il pane in presenza di tutti lì sul posto”.
L’istituzione de “Il pane quotidiano” ebbe il suo battesimo ufficiale il 13 gennaio 1901, con l’apertura di due sezioni, l’una alla Chiesa della Concezione e l’altra a S. Caterina Valverde, dove, con una esigua spesa di pochi centesimi, veniva fornita una razione alimentare “composta di grammi 160 di pane bianco e litro mezzo di minestra (pasta o riso con legumi)”. Contemporaneamente l’Amministrazione aveva organizzato una attiva vigilanza sulla produzione del pane che veniva messo in commercio, sia per quanto riguardava la qualità delle farine, che per l’idoneità della lavorazione. Anche ciò causò l’insorgere di gravi malumori che, il 12 febbraio 1901, sfociarono nello sciopero generale dei fornai.
Giusppe Arico’ Sindaco di Messina dal 1897 al 1899