Natale e Capodanno, quale “convivio” ?
Fa riflettere il “consiglio” del Governo, a “limitare i commensali al solo nucleo di conviventi” per le prossime festività natalizie e di fine anno, contenuto tra le righe del nuovo Dpcm in vigore da 4 dicembre al 15 gennaio 2021. Il giorno di Natale è consentito andare a pranzo a ristorante ma la raccomandazione per chi invece decide di rimanere a casa, è di non invitare persone non conviventi, e proteggere le persone anziane e con fragilità, anche utilizzando il distanziamento e le mascherine quando non si sta a tavola.
Un suggerimento per il cenone a sedersi tout-court, solo con i familiari conviventi, e ritrovarsi quindi con il nucleo più ristretto a tavola luogo simbolico; spazio di comunicazione, sito fisico di scambio, comunione, spesso anche percezione della propria solitudine. Occorre archiviare quindi che “Convivio” –cum vivere–, vivere insieme, presuppone la condivisione dello spazio della tavola, ove il gesto nutrizionale è trasformato in momento di comunanza dal valore sociale, culturale e psicologico. Natale e Capodanno sono appuntamenti che nella società contemporanea, realizzano in modo particolarmente forte l’idea della festa come momento in cui si rinsaldano i legami sociali, soprattutto quelli familiari.
Alcuni proverbi di larga diffusione e antica tradizione, raccolti dall’etnoantropologo Giuseppe Pitrè nel libro Usi e costumi credenze e pregiudizi del popolo siciliano (L. P. Lauriel di C. Clausen, 1889) esprimono, in forma essenziale e incisiva, la transazione del tempo, lo scandire delle festività e i richiami al cibo.
A evidenziare l’impegno a festeggiare nel migliore dei modi le festività natalizie si diceva ad esempio: Prima ri Natali né friddu né fami, dopu Natali u friddu e a fami; prima di Natale né freddo ne fame dopo freddo e fame.
Per sottolineare la possibilità di festeggiare meglio per chi aveva risorse economiche, si utilizzava l’espressione Cu avi dinari ‘nto bursittinu, fa Pasqua, Natali e San Martinu.
Ed il richiamo ci porta alla trasformazione della famiglia, del desco patriarcale, ad un’arte gastronomica che il sociologo Leo Moulin (1906-1996), a cui nel 1976 fu attribuito l’Oscar mondiale della gastronomia, definiva come importante fattore culturale. “Non mangiamo con i denti – scriveva – e non digeriamo con lo stomaco; mangiamo con la mente e assaporiamo i cibi secondo norme culturali legate al sistema di scambi reciproci che è alla base della vita sociale”.
Tre elementi costitutivi e tre momenti essenziali di ogni forma di convivio sono indicati da Domenico Musti nel suo libro Il simposio (Laterza – 2001): il pasto, cioè il mangiare insieme un cibo; la bevuta, il bere una bevanda, generalmente il vino; e il gioire insieme, e cioè l’intrattenimento, il divertimento, il piacere.Ricostruzione temporale che appare suggestiva se neconsideriamo i valori per gli eventi di Natale e fine anno ove la festa è, innanzitutto, un vissuto collettivo; se il rito è qualcosa che si fa, la festa è qualcosa che soprattutto si sente e non esiste festa o ricorrenza, sia laica che religiosa, che non sia legata al cibo con festeggiamenti elaborati sempre dalla tavola, modulati a seconda delle varie tradizioni, sempre policrome anche all’interno di uno stesso territorio.
Il cibo assume allora valore simbolico in dodici giorni, da Natale all’Epifania, di un’unica festività che conclude l’anno vecchio e apre il nuovo ciclo generativo con i doni natalizi che all’origine, a differenza dall’attuale aspetto consumistico, erano una ridistribuzione dell’eccedenza alimentare fatta di noci, mandorle, castagne, dolci e frutta secca.