La pasta: Uno dei simboli dell’Italia
Il 2019 sé stato l’anno della “pasta innovation” che ha registrato per i pastifici italiani maggiori investimenti in innovazione, ricerca e sviluppo; quella integrale ad esempio, ha visto così salire del 18 per cento i consumi. La pasta, uno dei simboli dell’Italia, genera il 3,5 per cento del fatturato dell’industria alimentare nazionale; la filiera coinvolge poco meno di 200 mila aziende agricole per una superficie di 1,28 milioni di ettari. I molini sono circa 350, mentre l’industria di trasformazione conta circa 120 impianti per un totale di 3,36 milioni di tonnellate di pasta prodotte all’anno, un quarto della produzione mondiale. Di queste, il 56,5 per cento è destinato alle esportazioni. Eppure solo il 68 per cento della pasta lavorata all’interno dei nostri confini contiene grano nazionale: il restante 32 per cento è ottenuto da frumento estero, proveniente per lo più da Francia, Usa, Kazakistan, Australia, Canada. Oggi su una produzione annua di 2 milioni e novecento tonnellate l’utilizzo nazionale è di un milione e 600 tonnellate con un consumo pro capite di 28 chilogrammi.
Quello tra la Sicilia e la pasta è uno storico legame che, sotto la dominazione araba, connaturò certamente l’Isola per un ruolo da protagonista nella diffusione, specie di quella fresca, in tutta Italia.
Una tra le prime documentazioni è quella datata 1247 negli Atti di beatificazione di frate Guglielmo eremita di Scicli ove compare la parola “maccarones”; e poi quella del 1279 che riporta la descrizione di un mercante genovese di un carico di macharoni probabilmente proveniente dalla Sicilia.
All’Isola, seconda solo alla Puglia per superfici coltivate a grano duro, sono attribuite le prime testimonianze storiche di produzione di pasta secca a livello artigianale-industriale; già intorno all’anno 1154 infatti, secondo quanto tramandato dal libro di Ruggero “Kitab-Rugiar” , del geografo arabo Abū ‘Abd Allāh Muhammad ibn Muhammad ibn ‘Abd Allah ibn Idrīs al-Siqillī detto il Siciliano o anche Idrīsī o Al-Šarīf, presso Trabia nel palermitano, veniva segnalata una fabbrica di pasta, che gli arabi chiamavano itryah che significava “pasta fine tagliata a strisce filiformi”.
Emilio Sereni ha condotto una interessante indagine a proposito del vocabolo trya che ricorre, sotto varie forme, in tutte le parlate del Mediterraneo arabo-cristiano. In un Theatrum sanitatis, adattamento latino, di un trattato di medicina e di igiene dello scienziato arabo-ispano Abdul Hasan al Muchtar, il vocabolo trij viene tradotto con “paste alimentari”. Al tria, aletria erano, nella Spagna saracena, una specie filiforme di “vermicelli”. E oggi, in arabo, itriya significa appunto “vermicelli”. La stessa parola – sostiene lo studioso- viene usata in siriaco e in aramaico per indicare paste alimentari.
Una catalogazione pubblicata 130 anni fa dal medico-etnoantropologo siciliano Giuseppe Pitrè, registra la pasta a seconda che sia fatta “d’arbitriu” cioè attraverso la strettoia di una trafila, da quella a “manu” o di casa. Quella rappresentazione del 1889 ancora oggi valida, è chiarificatrice dello “scrigno” di paste siciliane che talmente ricco di varietà ha sicuramente influenzato la produzione dei grandi pastifici industriali del Paese.
- Attiuppateddi: Pasta non molto grossa, tagliata assai corta, comunemente conosciuta come maltagliati.
- Cannizzolu: Maccherone grosso come un dito medio
- Capiddu d’ancilu: Pasta lunga molto sottile
- Cavetuni: Pasta a grossi e larghi anelli
- Fidillini: Fili sottilissi di pasta lunga, tondi e pieni
- Filatu: I vermicelli
- Filatu cu lu pirtuso: Vermicelli bucati, spilloni o agoni bucati
- Gangi di vecchia: Pasta tonda, ricurva e rigata, denti di cavallo
- Gnòcculi: Morsoletti di pasta fatta a mano e cavata diversa dagli gnocchi continentali
- Jiritaletta: Pasta di forma simile a spilloni bucati, che una volta uscita dai fori dello stampo veniva tagliata, chiamati anche avemaria o se più grossi patrinostru
- Lasagni: Le classiche lasagne
- Lingua di pèssaru: Pastina simile a chicchi di riso appiattito per minestrine in brodo, punti d’ago
- Maccaruncino: Pasta lunga forata, meno grossa dei maccheroni napoletani, foratino
- Maccaruni: Come quelli napoletani
- Magghieti: come i maccheroni napoletani ma recisi come escono e un pò curvi, gambe di donna
- Orecchi di judeo: Grossa pasta a forma di orecchi
- Pirticunedda: Pastina per minestre, come palline da schioppo
- Sciabbò o scibbò: Lasagne larghe e incannellate, pappardelle
- Spaghettu: Fili di pasta lunghi, tondi e pieni più grossi degli spilloni, spaghetti
- Spizziddu: Pastina quasi tonda a piccolissimi chicchi
- Stiddussi: Per il brodo a foggia di stelline
- Tghiarini: Lasagne strette, tagliolini
- Tria bastarda: Pasta larga e tonda più grande dei capellini, agone, spillone
- Vampacuìscia: Lasagne strette
- Virmiceddi: Generica indicazione di pasta lunga, tonda e sottile
- Zitu’ o maccaruni du zitu’: Grosso maccarone di dimensione inferiore al cannizzolu.
Dei maccaruni assimilati, nell’immaginario collettivo, al consumatore napoletano si ritrova traccia di legame con il popolo siciliano quale “mancia maccaruna”, già nel seicento con la descrizione di Ortensio Lando, umanista italiano nato intorno al 1510 che a proposito del siciliano scrive “E li mangia a stufatu o cu lu sucu di carne di maiale” e Vittorio Imbriani, ottocentesco studioso napoletano di letteratura popolare nel suo Canti popolari delle province meridionali, edito nel 1877, ne ricorda quelle parole “ fra un mese (se i venti non ti fanno torto)giungerai nella ricca isola di Sicilia ed mangerai di quei maccheroni i quali hanno preso a nome del beatificatore.
Alcune delle paste descritte hanno forme che risalgono al XVI secolo e tracce bibliografiche sull’utilizzo alimentare si hanno anche in un testo del 1576 dal titolo “Informatione del pestifero, et contagioso morbo”, in cui l’autore, il protomedico del Regno di Sicilia, Giovanni Filippo Ingrassia, scrive di “vivande di pasta come sono i vermicelli, taglierini, maccheroni et què che chi…”
In un altro testo Libro de Arte Coquinaria, del cuoco e gastronomo italiano Martino de’ Rossi (o Martino de Rubeis), meglio conosciuto come Mastro Martino, nato intorno al 1430 nel Ducato di Milano, si parla di maccheroni siciliani e di maccheroni alla genovese, ma realizzati, esplicitamente come pasta fresca.
L’autore che lavorò a servizio di Francesco Sforza a Milano, poi nelle cucine Vaticane, e come cuoco personale del cardinale camerlengo Ludovico Trevisan si sofferma sulla loro fattura, avviata con farina di grano tenero acqua e bianco d’uovo e anticipando la metodologia per essiccarli “in estate nel periodo di luna d’agosto” e cucinarli anche dopo “almeno tre anni”.
La produzione di pasta secca nel messinese ebbe un grane sviluppo nell’ottocento per la presenza sul territorio della riviera ionica e di quella tirrenica di numerosi corsi d’acqua, le cosiddette fiumare, che favorirono la nascita di mulini per la macina e la lavorazione del frumento, fasi propedeutiche all’ottenimento di farine e l’apparizione di pastifici.