La Mantia: “ L’invidia è paura del confronto. Il bunker sarà un dolce al pistacchio”
La passione per il cibo l’ha ereditata da adolescente, a Palermo, dai suoi genitori quando ha cominciato a spadellare.
Da allora, Filippo La Mantia, star della cucina internazionale, proprietario di uno dei ristoranti più rinomati di Milano, non si è più fermato: San Vito Lo Capo, dove è tra i promotori del Cous Cous fest che conta durante il festival ogni giorno decine di migliaia di visitatori, Indonesia, Roma, Milano.
Non si è fermato nemmeno durante la pandemia quando, allertato dall’ospedale Niguarda, ha richiamato la sua brigata di cucina, bloccata come tutti gli italiani dal lockdown, e gli ha fatto sfornare sino a 700 pasti al giorno. Durante il coprifuoco imposto dal governo, si è inventato l’asporto andando a consegnare in moto o in auto, personalmente, il cibo ai suoi clienti. Da giovedì mattina sarà a Messina per questa nuova avventura con il progetto del nuovo Bar Billè lanciato dalla famiglia Urbano.
Chef La Mantia le fa più paura il Coronavirus o la crisi?
“Il virus è una brutta bestia. E’ ovvio che il coronavirus che abbiamo vissuto a Milano ci ha colto di sorpresa. Qualcosa di impalpabile. Che non si riesce a gestire e a prevenire davvero. In Lombardia noi ristoratori abbiamo vissuto tutto in prima persona. Sulla nostra pelle. Sulle nostre tasche. A fine febbraio ci hanno detto di uscire e di proseguire con la nostra attività. Poi il 7 marzo ci siamo ritrovati dentro la pandemia. Un trauma. Ho dovuto chiudere. Sono stato costretto a mettere 35 dipendenti in cassa integrazione. Una cosa terribile. Sono miei figli”.
E dopo…
“Dopo due settimane stavo diventando cretino. Ho suonato. Ho pubblicato ricette per i clienti che sentivo tutti i giorni al telefono o per messaggio. I clienti sono la cosa più importante per un ristoratore. Da metà marzo poi, il Niguarda, mi ha telefonato per produrre pasti. Una chiamata alle armi. Una cosa che ho accolto con entusiasmo. Cucino da anni per Emergency, per il carcere, per cene benefiche. Ho richiamato i mie ragazzi. Abbiamo prodotto 700 pasti al giorno per l’ospedale. Subito dopo abbiamo iniziato il delivery, l’asporto. Dal 30 marzo in poi consegnavo in moto e in macchina casa e la gente vedendomi arrivare era felice. Lo abbiamo fatto con tutte le precauzioni. Dopo il 4 maggio ci hanno detto che potevamo riaprire. Ho sanificato anche l’ultimo bullone. Non abbiamo avuto aiuti da nessuno. Ho messo le mani in tasca. Da quando abbiamo riaperto, però il ristorante è strapieno. Per le regole sul distanziamento ho perso dei posti. E ho dovuto rinunciare al 45 per cento del fatturato”.
Più facile guarire dalla crisi o dal virus?
“La crisi esiste da sempre e mi fa meno paura. Il mondo è sempre stato in crisi. Il virus invece ci ha fatto capire che siamo vulnerabili. Tutti. Nessuno si sarebbe aspettato una pandemia. Una guerra, un terremoto erano possibili. Il virus no. Fa ancora paura. Non mi piace la disattenzione che vedo in giro, in spiaggia, dentro la movida, o tra i tifosi che festeggiano. Stiamo attenti. Il momento è delicatissimo. Certo è bellissimo vedere la gente al ristorante. Ma è cambiato tutto. Sono un diventato un esperto della tecnologia. Io che sono un maniaco dell’estetica ho dovuto plastificare i menù. Oppure invito i mie clienti a scaricare l’app e a guardare i piatti sul telefonino. Ognuno di noi poi cambia un numero infinito di mascherine. Un’impresa ha risanificato l’impianto di condizionamento nei giorni scorsi. Spese su spese. A ottobre tirerò le somme”.
Ci racconta come si è avvicinato a questa professione?
“Ho sempre cucinato. Da quando avevo 13 anni. E’ una passione trasmessa dai miei genitori. In Sicilia è tutto legato al cibo. I momenti più belli sono legati al cibo. Le feste. L’amore. A 38 anni ho fondato un cus cus bar a San Vito Lo capo. Il posto era strapieno. Il Cous Cous fest è nato dal mio locale. Un progetto da 300 mila persone in otto giorni. Nel 2000 sono andato a Roma. Sono stato 15 anni nella capitale dove ho lavorato per diversi ristoranti. Dal più piccolo al più grande. Poi l’ indonesia. Poi al ancora un ristorante vicino al Pantheon, e in Costa Smeralda. Poi al Majestic dal 2008 al 2013. E infine il mio ristorante a Milano”.
In mezzo anche i talent televisivi?
“Non mi piacciono. Ne ho fatto uno nel 2013 per vari incroci di ragioni. Ringrazio chi mi ha contattato. Ma è una cosa che non sta nelle mie corde. Un programma sulle moto lo farei ma sulla cucina mai più”.
Veniamo a Messina e al ritrovo Billè. Perché la scelta di condividere un progetto così ambizioso?
“Due anni fa tramite un amico di Milazzo ho conosciuto la famiglia Urbano che voleva lanciare, mi ha detto, un progetto a Messina. Sono venuti a Milano Francesco e Umberto Urbano e abbiamo iniziato a parlare. Ho tentato di dissuaderli in tutte le maniere. Fare un luogo di ristoro significa mettersi in discussione. E’ il sogno che hanno tutti. E’ una cosa che ti intrippa. Anche gente che non c’entra nulla con la ristorazione vuole aprire ristoranti. E’ un lavoro che non è un lavoro. E’ una sorta di missione che non ti porterà mai guadagni. O lo fai perché senti di farlo, perché vuoi rappresentare te stesso, perché ti piace, o è meglio lasciar perdere. Ogni giorno devi dimostrare alla gente chi sei. La tua credibilità passa attraverso quattro sedie e attraverso quello che porti sul tavolo. Attorno al cibo ci sono tante aspettative. Sopravvivono bene le aziende familiari. Se investi, per i primi cinque anni, non vedi un centesimo. Sono andato a Bologna dove farò un grosso progetto e ho detto le stesse cose. Non sono riuscito a convincerli. Alla famiglia Urbano ho voluto bene subito. Ho visto una famiglia dedicata al lavoro”.
Ma lei verrà spesso in città?
“Certo. In due anni sono venuto almeno trenta volte. Ho girato anche i vicoletti. Ho bisogno di conoscere i luoghi dove opero. Prima di tutto perché odio le concorrenze e le invidie”.
Invidie?….a Messina?
“Non mi meraviglio di nulla. E’ la gente che decide dove andare. Se ho un posto bellissimo non basta. Dentro il contenitore comanda la gente. E scattano sono le invidie, in tutto il mondo. Sono palermitano. Non parlo un’altra lingua. La Sicilia è unica. Gli attacchi che ci sono stati mossi rispetto all’enormità del mondo non mi hanno nemmeno sfiorato. Il fatto che tu faccia dà fastidio. Anche a San Vito Lo Capo ho avuto i miei problemi. L’invidia è tipica di coloro che hanno paura di confrontarsi.
Da giovedì mattina quel posto deve dimostrare qualcosa”.
Lancerà qualche piatto?
“Ho una fantasia galoppante. Lancerò un dolcetto: il Bunker. Ha capito bene: il bunker. Proprio come chiamavano quella costruzione che ospiterà parte del nostro locale disegnata dall’architetto Piero Lissoni. E’ mousse di pistacchio puro con sopra ganache di cioccolato puro. E’ un contenitore. Non sai quello che c’è dentro. Il pistacchio può non piacere. Ma prima devi provarlo. Devi vederlo bene. Come il locale. Le beghe da quartiere non giovano a nessuno. Ho detto ai detrattori che se volevano e se vogliono avere un confronto, sanno dove trovarmi. Nessuno mi ha chiamato. Da giovedì sarò dietro il bancone. A servire Caffè, cornetti, Cous Cous e i miei bunker”.