La mafia spettacolarizzata, il manifesto di un patrimonio collettivo che c’è ma non si dice.
La Mafia c’è ancora, una immagine stereotipata nello stile de “Il Padrino” che è lontana anni luce dalla realtà, ma rientra pienamente nel patrimonio culturale collettivo. La mafia non ha vinto, ma non è stata nemmeno sconfitta. Lo vediamo e lo percepiamo, non possiamo far finta che non esista.
La mafia è un fenomeno umano e come tutti i fenomeni umani ha un principio, una sua evoluzione e avrà quindi anche una fine. Spero solo che la fine della mafia non coincida con la fine dell’uomo”. E’ bene partire da questa considerazione da un magistrato ucciso dalla Mafia, Giovanni Falcone, per tentare di scrivere di mafia vissuta, percepita che c’è anche se non si deve dire.
In queste ultime settimane sta facendo molto discutere “Màkari” serie televisiva italiana diretta da Michele Soavi e tratta dai romanzi e racconti di Gaetano Savatteri. Il protagonista è il giornalista e investigatore Saverio Lamanna (interpretato da Claudio Gioè).
Gaetano Savatteri, su Repubblica nei giorni scorsi in un intervento intitolato “Siciliani brava gente ma Cosa nostra esiste ed è bene ricordarlo sempre” ha evidenziato che: “a Màkaric’è anche la mafia. E pure l’antimafia. Màkari, quella reale, è in Sicilia, in provincia di Trapani”.
Viene citato un documento ufficiale nel quale si individua la mafia, anche se non aveva questo nome, una relazione di Pietro Calà Ulloa, magistrato borbonico che nel 1838 denuncia la presenza di “fratellanze, specie di sette che dicono partiti” in cui erano presenti delinquenti, notabili e arcipreti per coprire reati, manovrare contro la pubblica amministrazione e risolvere controversie. Calà Ulloa, nel 1838, era procuratore del Re a Trapani.
Il sindaco di Trapani Giacomo Tranchida è intervenuto, sostenendo che non era necessario ricordarlo in un romanzo e nemmeno in una fiction.
Savatteri avverte che nel suo racconto “Il lato fragile” (inserito nel libro di Sellerio “Quattro indagini a Màkari”) da cui ha preso spunto l’ultimo episodio della fiction con Claudio Gioè, Domenico Centamore ed Ester Pantano, si è occupato proprio di mafia e antimafia.
Il sindaco di Trapani avrebbe voluto che emergessero solo gli aspetti positivi del suo territorio come la resistenza civile degli ultimi anni.
In realtà continua il giornalista se c’è stata una resistenza non si può ignorare che in provincia di Trapani c’è stata una presenza alquanto ramificata di Cosa Nostra e che le origini di Matteo Messina Denaro siano riconducibili a questo territorio.
Quindi: “la mafia c’è, ma non si dice” recita il detto. Ancora oggi le mafie tessono reti, uccidono, cospirano, cercano accordi con la politica e le imprese, vivono cercando disponibilità preziose per continuare la loro opera distruttrice della società.
Le mafie che hanno impostato il loro sistema sui nuovi modelli relazionali, hanno anche imparato ad utilizzare nuovi codici e nuovi linguaggi per confondersi, con quel loro fare camaleontico, nel fluire della società liquida.
E lo hanno fatto attraverso un uso appropriato delle nuove tecnologie come risorse per la gestione dei propri flussi finanziari e per lo sviluppo delle attività criminose, muovendosi con disinvoltura sui social e WhatsApp.
Il codice comunicativo si è evoluto e, se in una precisa fase storica, è stata sfruttata la spettacolarizzazione, in seguito è tornato ad essere impiegato come veicolo di messaggi, riappropriandosi della sua identità. Esemplari in tal senso l’impiego di pizzini di Bernardo Provenzano, che sono stati strumento di comunicazione e di gestione del potere ed hanno al contempo contribuito a svelare agli inquirenti molte dinamiche di Cosa Nostra, aprendo, quindi, ad una dimensione esterna.
Eppure della Mafia c’è ancora una immagine stereotipata nello stile de “Il Padrino” che è lontana anni luce dalla realtà, ma rientra pienamente nel patrimonio culturale collettivo. Così come controversa si presenta ancora oggi la figura del mafioso, in cui convivono due nature contrapposte: sono santi e benefattori per alcuni, demoni per altri.
Oggi, la mafia non ha vinto, ma non è stata nemmeno sconfitta. Lo vediamo e lo percepiamo, non possiamo far finta che non esista.
In questa nostra società è difficile trovare esempi di responsabilità, di etica e di morale. Penso al Giudice Paolo Borsellino o al Giudice Antonino Caponnetto, due grandi uomini che ho avuto l’onore di intervistare e che non dimenticherò mai.
Quando la retorica abbandonerà questo palcoscenico fittizio solo a quel punto conosceremo la verità di storie mai raccontate fino in fondo. Forse, o almeno su questo non possiamo perdere la speranza.