LA GASTRONOMIA SICILIANA E “IL GATTOPARDO”: QUANDO IL CIBO È PROTAGONISTA ANCHE A TEATRO
I protagonisti del libro e quelle atmosfere vengono ricreati in questa stagione a teatro, con Amori e Sapori nelle Cucine del Gattopardo di Roberto Cavos che ha debuttato il 20 gennaio al “Vittorio Emanuele di Messina.
Nel romanzo “Il Gattopardo” di Giuseppe Tomasi di Lampedusa si ritrovano le trasformazioni avvenute nella vita e nella società in Sicilia durante il Risorgimento, dal trapasso borbonico alla transizione unitaria del Regno d’Italia, seguita alla spedizione dei Mille di Garibaldi.
In quella narrazione il cibo diventa un elemento portante, quasi un protagonista che contribuisce a mostrare e delineare ambienti e personaggi.
I protagonisti del libro e quelle atmosfere vengono ricreati in questa stagione a teatro, con Amori e Sapori nelle Cucine del Gattopardo di Roberto Cavos che ha debuttato il 20 gennaio al “Vittorio Emanuele di Messina.
Lo spettacolo nato da un’idea di Simona Celi, per la regia di Nadia Baldi, in due atti racconta con ironia, scontri e ricatti tra Teresa e Monsù Gaston, interpretati da Tosca D’Aquino e Gianpiero Ingrassia.
Teresa è la cuoca, che in gioventù è stata la cortigiana prediletta di Don Fabrizio Salina, il Gattopardo. Monsù Gaston è il cuoco, mandato in aiuto dei Ponteleone dallo stesso Don Fabrizio. Lo spettacolo sarà proposto nei teatri di Gemona del Friuli, Casarna della Delizia PN, a Trieste, Spilimbergo, Siena, Avellino, Catania, Lecce, Bologna, Colle di Val D’Elsa, Cento, Cesenatico, Ferrara con conclusione al Quirino di Roma dal 28 marzo al 2 aprile.
Tra stoviglie volanti e lanci di padelle, i due cuochi litigano, invidiosi l’uno dell’altra, rivaleggiando non soltanto nel preparare i piatti migliori, ma soprattutto nel ricercare le attenzioni esclusive di Don Fabrizio. Profumi e pietanze tipici della cucina siciliana si mischiano ad arte con i sentimenti sacri e profani in quel caleidoscopico mondo di erotismo e languore, di passione e asprezza, di cui è fatto il “profondo” Sud.
Gastronomia e società che si condensano nella felice intuizione dello scenografo Luigi Ferrigno per cappe porta mestoli, per la cucina di Palazzo Ponteleone che diventano lampadari dei saloni o crinoline degli abiti femminili delle protagoniste del “Gran ballo”, narrato né Il Gattopardo.
“Amori e sapori nelle cucine del Gattopardo” si dipana tra succulenti litigi, ricatti, ironia, sarcasmo e umorismo attraverso lo scontro di Teresa e Monsù Gaston, che non si accontentano di gareggiare nel preparare i piatti migliori, ma vogliono avere anche l’esclusiva delle attenzioni di Don Fabrizio.
Un testo nel quale pietanze e sentimenti si mischiano ad arte in quel caleidoscopico mondo fatto di languore ed erotismo, di passione e causticità tipico del “profondo” sud. Una finestra sul banchetto del Gattopardo, summa storica dell’epoca precedente all’Unità d’Italia, dove sono protagoniste le abitudini gastronomiche delle classi nobili siciliane, già investigate a teatro con “Il timballo del Gattopardo” , di RosarioGalli, proposta per la regia di Giancarlo Sammartano nell’estate del 2010 al Palazzo dei Congressi, nell’ambito degli spettacoli di Taormina Arte. In scena, Carlo Cartier e Carmelo Chiaramonte, furono protagonisti il un intreccio tra letteratura e gastronomie siciliane, che per la prima volta si uniscono in una storia dalle tinte “noir” con incursioni ironiche e divertenti a causa della diversità dei due protagonisti.
Due chef, o meglio, uno chef di professione, Carmelo Chiaramonte e Carlo Cartier, un vero attore, appassionato dei fornelli, che interpretava un grande chef; entrambi, sul palco, impegnati nella preparazione di un banchetto funebre in onore di una famosa baronessa. Ma due grandi chef per un unico convivio sono il giusto ingrediente per un testo che in scena è una disputa continua, litigi senza fine; una guerra tra due Sicilie, o meglio tra due culture, due filosofie, due visioni del mondo e non solo culinario. Con padelle e ricette antiche e gustose, raccontano la Sicilia e le sue origini gastronomiche, da Archestrato di Gela, capostipite dei cuochi poeti e filosofi, fino a Brancati e Camilleri, passando per l’Abate, Meli, Verga, De Roberto, Tomasi di Lampedusa e Vittorini. E tra i foglietti delle ricette che svolazzano sul palcoscenico, riecheggia la presenza delle spezie, come lo zafferano, il pepe, la cannella, il chiodo di garofano, il profumo dell’acqua di rose, l’uso dell’aceto, della frutta secca, le mandorle e gli agrumi, ed il “torreggiante timballo di maccheroni” che il principe di Salina, offre ai suoi ospiti, per celebrare l’importanza e la solennità del primo pranzo a Donnafugata, feudo e località di villeggiatura della famiglia. La pietanza si impone con la sua carica simbolica, servito la sera in cui Angelica viene presentata in casa Salina, quando l’involucro di pasta dorata che racchiude un ricchissimo ripieno sembra il trionfante prodotto di venticinque secoli di gastronomia siciliana. In quel timballo le fragranze si mescolano, ne esaltano il «prezioso color camoscio» ottenuto in virtù di un estratto di carne lontano anni luce dagli odierni dadi da brodo: realizzabile solo nelle nobili cucine governate dai Monzù, i cuochi che per tradizione perfezionavano la loro arte in Francia. Un piatto che diventa sociologico testimone, a cui Tomasi riserva parole affettuose e per una volta non malinconiche. Riferimento per tutti è il film di Luchino Visconti girato nel 1963, con Burt Lancaster, Alain Delon, Claudia Cardinale, Paolo Stoppa, Rina Morelli, Lucilla Morlacchi, Romolo Valli, Terence Hill, Pierre Clémenti, Serge Reggiani, Maurizio Merli, Giuliano Gemma, Ida Galli, Ottavia Piccolo che oltre ad ottenere in quell’anno la Palma d’oro al Festival di Cannes 1963, il David di Donatello ed il Nastro d’argento nel 1964 per la migliore fotografia a colori , per la scenografia e i costumi, ebbe il merito di far conoscere ad un pubblico vasto la cucina feudale siciliana dell’Ottocento con i suoi due stili differenti, l’ostentazione tecnico culinaria del lusso dei grandi palazzi, e la generosa cucina dei monasteri, che si concedevano volentieri un monsù, sorta di cuoco a tre stelle dell’epoca.