La cucina frufru’ al tempo del Coronavirus
Una nouvelle cucine in brodo di testosterone ricerca in cucina il mascolino perduto.
Tra i nuovi stati dell’essere e del mondo, ipotizzati dopo la criticità del Coronavirus, c’è quello della fine dell’alta cucina ritenuta da alcuni taleban della tradizione solo superflua, leziosa, inutile.
Per i tradizionalisti, travestiti da gastrofuturisti di primo pelo, non ci sono dubbi: torneremo alla sostanza che farà rima con apparenza.
Il ragionamento continua in una spirale sillogistica, dove il primo assunto è infallibile come il papa ex cathedra: la cucina è solo quella tradizionale. Punto.
L’occasione virulenta è perfetta per sferzare ancora una volta il principio che: o nonna tradizione o morte. Una noia mortale.
In questa new age gastronomica ci si immagina un paradiso culinario fatto di ragù della mamma, polpette del bisnonno, ditalini del trisavolo.
Non c’è spazio per frivole evoluzioni, civettuose creatività, lustrini d’avanguardia.
L’urlo anti modernità scopre un’altra perla: la cucina maschia soppianterà quella frufru’.
C’è imbarazzo persino a scriverlo. Maggiore di quello che ho provato a leggerlo.
Niente frivolezze dunque. Niente piatti presentati con garbo, stile, eleganza.
Fiori eduli poi, non parliamone: fa checcachef.
Ma di cosa dovrebbe essere fatta questa nouvelle cucine al testosterone? Un fusillone è maschio mentre una pennetta rigata è femmina ? Un soufflé è da omosex navigato mentre un arrosto di montone rizza ogni toque ? La tradizione in soffritto ormonale detesta tutto ciò che non appanza. È leziosa quindi ogni forma di eleganza, di bellezza, di accuratezza.
Se non farai il loro ragout ti chiameranno Frufru’.