La “caccia” al Pescespada tra usi, costumi e leggende nelle acque dello Stretto di Messina.
La pesca nelle acque dello Stretto ha il suo periodo più redditizio nei mesi di luglio, agosto e settembre, quando il pescespada spinto dal richiamo dell’accoppiamento, risale dalle profondità ed affiora, diventando preda per i pescatori.
La pesca o meglio, come la si denominava un tempo, la “caccia” al pesce spada (Xiphias gladius) nello Stretto di Messina ha origini antichissime. Quel tratto di mare ricco di fenomeni e tradizioni che hanno colpito, nel corso dei secoli, l’immaginazione dell’uomo, è sempre stato teatro di un combattimento epico tra pescatori e pescespada. Già descritta ai tempi di Omero (X-IX secolo a.C.) per l’attrezzatura specifica e le particolari imbarcazioni, il pescato ha un largo impiego nelle ricette della cucina italiana. Spesso usato come condimento di pastasciutte e risotti, in Sicilia, il pesce spada viene cucinato su braci di agrumi e olivo, oppure grigliato sotto forma di braciolette con un tipico ripieno di aglio, pane grattugiato, prezzemolo, pecorino canestrato siciliano, e capperi, amalgamato da olio extra vergine di oliva. Un’altra preparazione è “al samorigghiu”: con le fette di pesce spada arrostite sulla graticola e condite con una emulsione di olio, prezzemolo, limone e molto origano oppure a “bagnomaria”, sistemando le fette di pesce spada in un tegame con coperchio, aggiungendo origano, una fettina di scorza di limone, sale, capperi, pepe, coprendo con un filo d’olio e cuocendo, fino a quando si creerà una sorta di lattume sulla superfice del pesce.
La pesca nelle acque dello Stretto ha il suo periodo più redditizio nei mesi di luglio, agosto e settembre, quando il pescespada spinto dal richiamo dell’accoppiamento, risale dalle profondità ed affiora, diventando preda per i pescatori.
Per centinaia di anni tra la sponda calabra e quella siciliana dello Stretto, la cattura del prezioso e gustoso pesce è stata condotta con le “feluche” o “felue”, dotate di un albero altissimo “ntinna”, da cui un uomo avvistava le prede ed avvisava gli uomini imbarcati sul “luntru”. La tipica imbarcazione a remi era già nota già ai tempi dello storico studioso greco Polibio che nel II sec. a. C., ne descrisse minutamente l’operatività: “In prossimità del porto su varie piccole imbarcazioni a due remi si pongono due uomini, ciascuna per esse. Un solo osservatore da un luogo elevato dirige i movimenti di queste. Su ogni barca, un uomo è ai remi, l’altro – armato di un arpione – sta a prora”.Descrizione poi citata nel 1638, dal gesuita Atanasio Kirker; da Linneo, nel 1758, e nel 1826,approfondita da Lazzaro Spallanzani, nel suo Viaggi alle due Sicile e in alcune parti dell’Appennino.
Il luntro (sic. luntru), così chiamato per probabile derivazione dal latino linter (barca da pesca a fondo piatto già utilizzata dai Romani), era lunga 24 palmi (cm. 624), larga cm. 165, con lo scafo alto circa cm. 80, dalla forma snella e slanciata (alla stregua del gladio la lamina cornea trasparente che si trova all’interno del dorso del calamaro) e il fondo tondeggiante in modo da consentire un ridotto pescaggio. Tale configurazione, unitamente alla leggerezza del legname impiegato nella sua costruzione ed all’esiguo spessore del fasciame, le consentiva di raggiungere un’elevata velocità, anche per la particolarità del sistema propulsivo dei quattro lunghissimi remi; i più lunghi, u stremulungo mt.5,72 e a paledda lungo mt. 5,46, poggiavano su due eleganti supporti (antinòpuli o anchinòpuli) sporgenti dalle murate di prua al fine di proiettare all’esterno della barca il loro fulcro e consentire ai due vogatori remate più vigorose, mentre i tre vogatori addetti ai due remi centrali, u menzu e u remu i puppa, lunghi 4,68 metri, volgevano le spalle alla direzione di marcia del luntru, che avanzava, al contrario di quanto avviene di solito, con la poppa. Al centro del natante, tradizionalmente dipinto di nero nella parte esterna e rosso e verde all’interno dello scafo, era collocato un albero detto fareri, alto circa cm. 350, alla cui sommità prendeva posto, opportunamente puntellando i piedi su apposite tacche rotonde (ruteddi) presenti a vari livelli, un avvistatore (u farirotu) il cui compito era quello di avvistare, seguendo le indicazioni che gli provenivano dall’avvistatore posto sulla più alta antenna della feluca (u ‘ntinneri), e poi seguire il pescespada nelle sue veloci circonvoluzioni suggerendo con sincopate indicazioni (và jusu, và susu, và ‘nterra, và fora, tuttu paru cammòra, firìila tunnu etc.) rivolte ai rematori, la rotta per agevolare il lanzaturi, il lanciatore collocato in piedi sulla estremità anteriore della poppa con il compito dilanciare, una volta che il pesce fosse venuto a tiro, una delle due aste di legno e punta di ferro (traffinera o ferru) che aveva a disposizione, poggiate sui loro supporti verticali (maschitti). La monografia sulla pesca del pesce spada nel canale di Messina, redatta nel 1880, in occasione dell’Esposizione Mondiale della Pesca tenutasi a Berlino e riedita nel 1906, a cura della Camera di Commercio di Messina, ricorda che, nelle stazioni (posti) con due feluche e quattro battelli (luntri) la divisione del pescato avveniva nella misura di venti parti per ogni feluca e 2 battelli, con le percentuali di due parti per l’armatore della feluca, una per la barca del lanciatore, una e mezza per il lanciatore, una per la vedetta (o foriere del luntro), tre per le due vedette che si danno il cambio sulla feluca, sei per i cinque rematori del luntru, quattro per i quattro rematori del secondo battello, una per il fabbro (il ferrajo che fornisce i ferri), mezza per la Chiesa.
A partire dalla seconda metà del XX secolo ci fu la progressiva dismissione delle tradizionali imbarcazioni causata dall’avvento della motorizzazione navale, e per l’applicazione di una lunga passerella all’imbarcazione e di altissimi alberi-tralicci di circa 30 – 35 metri, utilizzate come antenne di avvistamento; così il luntru dapprima trasformatosi in un’imbarcazione a quattro vogatori, tutti rivolti verso il senso di marcia, cadde definitivamente in disuso, mentre la feluca, in origine imbarcazione di avvistamento, diventò protagonista della “caccia”, arrivando negli anni sessanta a fare contare una flotta di circa 100 feluche, oggi ormai ridotte a poche decine che continuano questa unica tradizionale pesca, nel braccio di mare che separa la Sicilia dal Continente.
Le memorie di poeti e viaggiatori da Archestrato a Stefano D’Arrigo, ricordano e fanno rivivere le suggestioni dello Stretto di Messina, i miti di Colapesce sulla costa siciliana o del Gigante-pesce su quella calabrese, e di Scilla e Cariddi. Suggestioni, alimentate dal miraggio di Fata Morgana, o dalla lettura di vecchie guide turistiche, che fanno sempre da corona alla tradizionale pesca. Ed è notevole la loro influenza sui “sapori” dei cibi e sulla gastronomia dello Stretto, esaltati dalle peculiarità del territorio e dal pesce spada, pescato con una tradizione unica e millenaria.