Il cibo che divide
La proiezione del cibo in una dimensione social e le dinamiche di estetizzazione cui esso è sottoposto negli ultimi anni, rappresentano sempre più delle variabili che incidono sui processi culturali. Non va trascurato, tuttavia, come esista un’altra faccia della medaglia, a fronte di consumi sempre più ricercati e di tendenze – si pensi al turismo enogastronomico – entrate ormai nei nostri stili di vita: il food social gap.
Secondo le rilevazioni 2016 del Censis, infatti, in Italia nel periodo 2007-2015 la spesa alimentare nelle famiglie operaie è crollata del 19,4% e in quelle con a capo un disoccupato del 28,9%. Nel 2016, poi, il 45,8% delle famiglie a basso reddito hanno tagliato il consumo di carne (contro il 32% dei nuclei benestanti); ancora più ampio il divario per quanto concerne la riduzione dei consumi di pesce: -35,8% contro -12,6%. Il consumo familiare di verdura, nel nostro Paese, è diminuito del 15,9% tra chi ha basso reddito rispetto al 4,4% di coloro i quali hanno reddito più alto; per la frutta si è registrato un -16,3% contro un -2,6%.
La correlazione tra ampliamento della cultura gastronomica e diseguaglianze è un tema affrontato già nel 2007 da Josee Johnston e Shyon Baumann. Partendo dalla constatazione secondo cui le abitudini alimentari hanno portato ad un ampliamento della gamma dei cosiddetti cibi gourmet, tanto che alimenti tradizionalmente considerati “popolari” o “poveri” sono entrati a pieno titolo nel repertorio degli chef stellati, gli autori nella loro analisi si chiedono se tale mutamento sia specchio di un appiattimento della stratificazione sociale. Centrale nella loro analisi è il concetto di omnivorousness, utilizzato per indicare un ampliamento degli ambiti culturali: “[…] la omnivorousness era sembra […] abolire gli standard arbitrari e discriminatori della tradizionale gerarchia culturale”.
La loro ricerca, però, smentisce l’effettiva esistenza di un’erosione dei tradizionali confini sociali. Lo snobismo – evidenziano – non è in ritirata, si sta semplicemente manifestando in modo più sottile. È innegabile, quindi, che a tavola si continuano a vedere nuove e vecchie differenze sociali.
Anche nella sua dimensione esperienziale e vetrinizzazione mediatica, insomma, il cibo resta un elemento di discriminazione.