“Cià poi calari”: Il dilemma della porzione nell’alta cucina
I simpaticoni siciliani incalzano con: “Cia’ poi calari”. Si apostrofa così, sull’isola, una portata ritenuta piccola. L’esortazione spinge a cucinare oltre a quello che si ritiene essere solo un assaggio. Quella della porzione è una mania italica. Al ristorante, spesso, il quanto prende sopravvento sul come. Sarà frutto della fame del dopoguerra questa atavico bisogno di rassicurazione gastrica. Una cosa è certa: per molti la pancia reclama sostanza. E la sostanza, dicono, non è figlia dell’apparenza. Poco importa se servi caviale o plancton marino da cinquemila euro al chilo.
La porzione non è nemmeno geograficamente protetta: aumenta man mano che si scende lo stivale. Un secondo piatto in Val Brembana è tra gli antipasti a Canicattini Bagni.
In questa confusione, tra banco del mercato e tavolo del ristorante, sul conto si valuta il peso.
La critica prima va alla “nouvelle cousine”. Colpevole, secondo i fautori dell’extra size culinario, di avere reso le portate troppo minuscole da sopportare.
Il movimento della cucina moderna, in verità, fu tutt’altro. Nella rivoluzionaria opera di Gualtiero Marchesi, fu innovazione, gusto, qualità ed estetica.
La cucina Italiana, figlia di madre Francia, era spezzettata in miriade di cucine regionali. Marchesi tentò di dare senso estetico ai piatti portando raffinatezza, garbo e gusto.
I piatti divennero più belli. Il cibo non era più confezionato per essere tuffato nei paioli e da lì sulla mensa. Nasceva un canone estetico.
L’accusa, ai nostri giorni, va ai ristoranti di alta cucina colpevoli di lesinare sulle preparazioni. Si ignora che le porzioni spesso fanno parte di percorsi dove si mira saziare e ad emozionare piuttosto che all’abbuffare. Ma prima di riempire i piatti di neuroscienza occorre nutrire i cervelli.
Sarà quindi tempo di rinforzi confortanti alle porzioni, come sostiene chef Paolo Lo Priore, o insistere sul minimalismo emozionale che fa sgarro alla tradizione ma l’occhiolino all’emozione ?